
Oggi nella nostra rubrica di Letture Critiche non parleremo di un romanzo, bensì del saggio di Nick Hornby “Una vita da lettore”. Più che un saggio vero e proprio, questo volume è una raccolta degli articoli scritti da Hornby sulla rivista inglese The Believer tra il settembre 2003 e il giugno 2006. Si tratta di articoli dal taglio ironico e pungente, un perfetto humor inglese, che hanno molto da insegnare a chi vuole lavorare nel mondo editoriale.
Partiamo subito esplicitando i presupposti: Hornby è uno scrittore che viene pagato da una rivista per parlare dei libri che legge e anche di quelli che non legge. Ogni articolo infatti è preceduto da due piccole liste di testi, quelli che l’autore ha acquistato e quelli che poi ha realmente letto nel corso del mese. Spesso e volentieri le due liste non coincidono affatto, e tra poco vi spiegheremo perché. Intanto vogliamo sottolineare che tale premessa permette di rispondere all’annoso quesito: si può vivere di scrittura? Sfogliando le pagine di questo saggio ci sentiamo di rispondere con un secco: Sì, si può. Ovviamente parliamo di scrittura a tutto tondo, non soltanto delle royalties. L’autore può lavorare come editor, articolista, docente nelle scuole di scrittura: la credibilità acquistata dopo la pubblicazione gli permette di beneficiare di un’autorevolezza spendibile in campi limitrofi alla scrittura. Questo è un fatto. Per cui già dal titolo “Una vita da lettore” si comprende che per gli amanti dei libri, della scrittura e della lettura, la vita di Hornby corrisponde a una sorta di paradiso in terra.
Parliamo a questo punto proprio del titolo. Se è vero che l’ultima parola (come per quanto riguarda la copertina) è dell’editore, è vero anche che presentare il nostro testo con un titolo accattivante e azzeccato aumenta la possibilità che venga preso in considerazione. Ne è la prova il fatto che note agenzie letterarie, nelle loro schede di valutazione, sovente includono indicazioni sull’efficacia del titolo. Ci muoviamo in una terra di confine tra il marketing e la capacità di sintetizzare l’essenza del nostro testo in poche righe. La scelta di Guanda in questo saggio è ineccepibile: prendendo il volume tra le mani sappiamo esattamente di cosa parla. Siamo dei lettori, e questo è il libro che fa per noi.
Tale ragionamento ci conduce al secondo punto che vogliamo prendere in esame. Nick Hornby disapprova la tendenza dilagante di scrivere soggetti che abbiano come protagonisti i libri o gli scrittori: “il mondo dei libri sembra diventare vieppiù libresco“. Secondo lui si tratta di un fenomeno autoreferenziale, mentre egli afferma: “quello che ho sempre amato della narrativa è che può essere intelligente parlando di persone che di per sé non lo sono, o almeno non dispongono sempre delle risorse atte a descrivere i propri stati emotivi“. Sarà. Eppure a nostro avviso non si tratta di una tendenza recente o negativa. Esempi eccellenti nel passato e recenti ci dimostrano il contrario: in “Piccole Donne” Jo March vuole diventare scrittrice, ne “Il nome della Rosa” il manoscritto misterioso è un pericoloso assassino, in “Mysery non deve morire” l’ossessione per la vita di un personaggio letterario alimenta la follia, ne “La biblioteca dei morti” i tomi con i necrologi segnano le sorti del mondo intero. Nei nostri articoli abbiamo parlato di “Storia di una ladra di libri” ma possiamo citare innumerevoli esempi anche nel campo del fantasy (uno su tutti “La lettrice” di Traci Chee”) oppure libri di autori famosi che parlano di libri (“Sul romanzo” di Pennac e “E così vorresti fare lo scrittore?” di Bukowski). La lunghezza dell’elenco ci lascia intendere che scrivere libri che parlino di libri sia vantaggioso.
Una terza e ultima riflessione riguarda le incongruenti liste di Hornby. Molti dei libri che l’autore legge gli vengono inviati dal proprio editore o dagli stessi autori in cerca di una prefazione, di una recensione o di un consiglio. Non useremo mai la parola raccomandazione, anche quando scopriremo che Hornby è il cognato di Robert Harris e che anche la sorella scrive e pubblica con discreto successo in Gran Bretagna. Sento già il bisbigliare di molti autori emergenti scontenti: l’editoria è un mondo di raccomandati, si entra solo per conoscenze, tutto è truccato e bla bla bla. No. L’editoria, come molti altri ambienti, è un mondo fatto di relazioni e lo scrittore non è un’isola. È proprio questa la lezione che dobbiamo apprendere da Hornby. Egli non scivola in fin troppo facili complimenti riguardo i libri dei parenti, né tantomeno omette di raccontarci come è venuto a conoscenza della pubblicazione di un tal libro o perché gliene sia stato recapitato un altro. Alle presentazioni e ai convegni egli incontra suoi simili: autori. Da questi incontri inizia un prolifico scambio di commenti, si approfondiscono temi comuni e possono nascere collaborazioni. Molti editor nostrani sono diventati celebri proprio in questo modo, ricevendo manoscritti inediti da persone conosciute in ambito letterario. Per questo motivo, consigliamo a chi vuole emergere nel mondo editoriale di non limitarsi a scrivere sperando che la fortuna bussi alla porta. Frequentare fiere, congressi, convegni, presentazioni e scuole di scrittura vuol dire incrementare in modo significativo la possibilità che il vostro libro finisca nelle mani giuste (prima e dopo la pubblicazione): una buona parola o una buona recensione da un’autorevole voce possono cambiarne il destino.
Articolo di Greta Cerretti
Per approfondire:

“Leggo perché non so volare.”
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