In tutto c’è stata bellezza

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“Un libro potente, sincero, a tratti crudo sulla perdita dei genitori, sul dolore delle parole non dette e sulla necessità di amare ed essere amati” così Fernando Aramburu descrive “In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas. Dal punto di vista di chi scrive a questo “strillo” mancano due aggettivi: vittimista e vigliacco. Aggettivi che in questo articolo voglio argomentare, come da tradizione nelle Letture Critiche, dal punto di vista della tecnica narrativa.

Partiamo da vittimista.

 Essere didascalici

Nel manuale “Story”, strumento indispensabile per chi vuol fare dello scrivere un mestiere, Robert Mc Kee spiega chiaramente cosa significa essere didascalici: “quando la vostra premessa è un’idea che voi sentite di dover dimostrare al mondo e progettate la storia come se dovesse essere la irrefutabile certificazione di quell’idea”. Troppo generico? L’esempio che fa subito dopo Mc Kee è illuminante: “Lo sceneggiatore, per esempio, può decidere che la guerra sia il flagello dell’umanità e che il pacifismo ne sia la cura… Dalla prima all’ultima pagina della sceneggiatura riempirà lo schermo di immagini da voltastomaco che dichiarano forte e chiaro: la guerra è un flagello che può essere curato con il pacifismo, la guerra è un flagello che può essere curato con il pacifismo, la guerra è un flagello che può essere curato con il pacifismo… fino a farci venire voglia di prendere una pistola.”

L’operazione che compie Manuel Vilas è la medesima. È rimasto orfano, e soffre per la perdita dei genitori. Perdere un genitore è un dolore a ogni età, anche quando come Vilas sei già adulto e padre a tua volta. Eppure reiterare il concetto ancora, e ancora, e ancora, ripetendo al lettore quanto lui sia stato sfortunato ad assistere alla morte dei genitori, e quanto soffre e soffre e soffre… proseguendo nella lettura a morire è l’empatia: il lettore afferra con gratitudine la pistola che gli porge Mc Keee.

L’insegnamento che deve trarne l’autore è il seguente: reiterare una sola nota, per quanto melodiosa, alla fine la rende sgradita all’orecchio di chi ascolta.

Il secondo termine è vigliacco.

    Autobiografia sì o no?

L’autore è un poeta. Un eccellente poeta, aggiungerei, considerando l’elevato numero di frasi (poetiche appunto) che è possibile estrapolare dal suo testo. In questo romanzo compie un’altra pericolosissima operazione, pericolosa almeno per chi è alle prime armi, sconsigliata anzi sconsigliatissima da ogni editor professionista: racconta la propria autobiografia. La racconta in prima persona, con tanto di foto amatoriali dell’epoca dei genitori o delle loro auto. Editor, editori e lettori ripetono come un mantra: racconta la tua vita se sei un personaggio molto famoso o se i fatti della tua vita sono straordinari. Vilas racconta una storia tutto sommato ordinaria: la malattia, la morte dei genitori, un divorzio, il rapporto deteriorato con i figli, una storia pregressa di abuso di alcol. Dove sta il trucco? Ogni storia ordinaria diventa universale ed eccezionale se il narratore sa come raccontarla. Come abbiamo detto in precedenza, non è questo il caso.

Tuttavia Vilas ha dalla propria anche avvenimenti biografici più peculiari, materiale che si può definire esplosivo. E lui cosa fa? Fugge, con la memorabile frase che dà il titolo al romanzo: in tutto c’è stata bellezza.

Mia madre mentiva anche sulla sua data di nascita? Mia madre era pazza, scollata dalla realtà, spesso intenta a distruggere documenti importanti? Il parroco mi ha portato in un luogo buio per farmi cose brutte ma il mio cervello ha un black out riguardo l’avvenimento? I miei genitori hanno disertato i funerali dei propri genitori e parenti? A causa di mia madre ho divorziato? Di nuovo un mio zio ha tentato di abusare di me, eppure stavolta me lo ricordo perché qualcuno è intervenuto a salvarmi? Mio padre ha sperperato i suoi averi rendendoci poveri al punto di non poter fare la doccia? Non ho mai conosciuto i miei nonni, i miei non hanno mai parlato di loro? Nella mia famiglia si taceva su tutto quanto fosse davvero importante? In tutto c’è stata bellezza

Davvero c’è stata bellezza?

No. In tutto questo non c’è bellezza. C’è dolore, disperazione, angoscia di un bambino che da grande diventa alcolista, traditore, infelice. Incapace di accettare la morte dei genitori perché significa aver perso ogni occasione di riscatto, redenzione, conoscenza. Questo libro tenta di ricucire le cose ma in realtà si limita ad aprire lembi di abisso per una frazione di secondo e poi richiudere.

E se la persona Vilas può (legittimamente) scegliere il romantico meccanismo di difesa della “bellezza” per impedire all’abisso di inghiottirlo, il personaggio Vilas non può farlo. Perché un autore che permette a un personaggio di accennare senza dire, fuggendo dal materiale rovente da lui stesso messo in campo, compie un atto di codardia bello e buono nei confronti del lettore. E un errore di tecnica.

Articolo di Greta Cerretti

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