
Oggi nella rubrica di Letture Critiche parliamo di “Storia di una ladra di libri” di Markus Zusak e lo facciamo in modo diverso dal solito, mettendo a confronto il romanzo del 2005 con la pellicola del 2013. Ricordiamo che l’obiettivo delle nostre Letture Critiche è essenzialmente quello di mettere in evidenza gli aspetti tecnici vincenti di ogni storia, in modo da poterli applicare quando scriviamo, allo scopo di produrre un buon libro (possibilmente di successo). L’esercizio di oggi è utile poiché va ad analizzare quali peculiarità del romanzo sono state riprese, enfatizzate o deprezzate nella versione cinematografica.
Il primo aspetto tecnico distintivo del romanzo “Storia di una ladra di libri” è la scelta della voce narrante. Siamo in presenza di un narratore onnisciente d’eccezione: la Morte stessa. L’autore non cede alla fin troppo facile tentazione di raccontare le aberrazioni del nazismo attraverso gli ingenui e dolcissimi occhi di una bambina, bensì lascia l’ingrato compito alla Nera Mietitrice. Per forza di cose disincantata di fronte agli orrori delle guerre, la Signora in Nero riesce tuttavia a lasciarsi affascinare dalle vicende di Liesel Meminger e degli abitanti della Himmelstrasse. L’autore compie un ulteriore, audace passo: concede alla Morte, onnisciente per definizione, di anticipare al lettore il trapasso di alcuni personaggi. Questa operazione, che paradossalmente depotenzia la tensione narrativa, ottiene invece il pregevole effetto di esaltare la componente emotiva. Svincolato dal desiderio di sapere “cosa accadrà” perché già conosce l’esito, il lettore può soffermarsi maggiormente sulla descrizione degli attimi di sofferenza, angoscia e disperazione di Liesel. Questo primo, peculiare aspetto tecnico della “Storia di una ladra di libri”, viene ripreso nel film eppure non centra il bersaglio: la Morte racconta ma non anticipa, si limita a descrivere quel che si snoda davanti agli occhi dello spettatore senza costituire un valore aggiunto. Il regista ha correttamente identificato quello che in precedenti articoli abbiamo definito “elemento esotico” ma non ne ha sfruttato la vera potenzialità.
Se il primo aspetto caratterizzante di “Storia di una ladra di libri” è dato dal suo narratore, il secondo è rappresentato dalla sua protagonista, che non è Liesel Meinger bensì la parola, con il suo potere salvifico, liberatorio e terapeutico. In questo romanzo i libri sono protagonisti in ogni loro componente: la copertina, la carta, le lettere che compongono le frasi e i significati che acquisiscono per il semplice fatto di trovarsi in un determinato luogo in particolare momento. Il “Manuale del necroforo” viene rinvenuto nei pressi della tomba del fratello di Liesel; “Mein Kampf” contiene al suo interno, riposti tra le parole antisemite, i documenti salvavita di Max l’ebreo; le lettere dell’abbecedario dipinte da “Papà Huber” sul muro sono il faro che indica a Liesel la strada per imparare a leggere; la descrizione del tempo metereologico fuori dalla cantina aiuta Max a visualizzare il sole che non può vedere; la storia letta a voce alta da Liesel nel rifugio antiaereo aiuta tutti gli abitanti della Himmelstrasse a trascorrere in modo meno tormentato le ore sotto le bombe. E ancora potremmo andare avanti citando la biblioteca di Ilsa Hermann che mantiene in vita il ricordo del figlio morto, il libro gettato nel fiume e non ultime le pagine bianche da riempire che sottraggono Liesel allo scherzo crudele del destino di cui rimane vittima la Himmelstrasse. La lezione da trarre è quella di avere ben sempre chiaro in mente, quando si scrive, di cosa parla il nostro libro e cosa vogliamo comunicare al lettore. Il regista Brian Percival lo ha compreso bene e pazienza se nella pellicola alcuni avvenimenti vengono modificati (ad esempio nel film le storie lette da Liesel salvano Max dalla malattia e il libro che lui le regala la prima volta è differente) perché il succo non cambia, il cuore della storia è il medesimo: le parole possono salvarci la vita in mille, meravigliosi modi diversi.
A questo proposito, vogliamo evidenziare un terzo aspetto tecnico relativo a un fastidioso, grossolano errore nel film. La pellicola è correttamente ambientata nella Germania della Seconda guerra Mondiale e tutto quadra alla perfezione: la ricostruzione della strada, i canti, gli abiti e le divise, le insegne dei negozi e perfino le scritte sui barattoli della cucina di Liesel. Tuttavia, l’abbecedario sul muro della cantina e i libri che la bambina legge sono scritti in inglese e non in tedesco. La cinematografia è piena di incongruenze di questo tipo, errori spesso considerati alla stregua di peccati veniali. In un libro, al contrario, un simile errore di ambientazione può costare caro a un autore, perfino fare la differenza tra essere o meno pubblicati: il nostro consiglio è pertanto quello di studiare nel dettaglio il periodo storico nel quale volete ambientare il vostro romanzo e di evitare simili inciampi.
Articolo a cura di Greta Cerretti

“Leggo perché non so volare.”
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