
Oggi nella rubrica Letture Critiche parliamo di “La biblioteca dei giusti consigli” romanzo d’esordio di Sara Nisha Adams. “La biblioteca dei giusti consigli” è una lettera d’amore per i romanzi, la lettura e le biblioteche lunga trecentosessantasette pagine. È il romanzo che ogni bibliofilo adorerà sfogliare, ma anche il romanzo che ogni autore vorrebbe saper scrivere. Personaggi dei grandi classici intrecciano le loro vicende con i protagonisti, in un gioco di specchi dove finzione e finzione si mescolano diventando realtà. Gli ingredienti giusti per renderlo un successo editoriale ci sono tutti: ambientato a Londra tra il 2017 e il 2019, in un contesto multiculturale e multirazziale del quale l’autrice ha esperienza personale, rispettando la regola aurea del “scrivi di ciò che sai” (ne abbiamo parlato qui); prende spunto da una lista di lettura nella quale vengono citati numerosi classici (abbiamo parlato qui della mai sopita attualità di scrivere libri che parlano di libri); la copertina è essenziale ma centrata sul testo (abbiamo sottolineato qui come questo costituisca un valore aggiunto).
Allora cosa può insegnarci di nuovo “La biblioteca dei giusti consigli” in termini di tecnica narrativa? Sara Nisha Adams prima di essere autrice è direttrice editoriale ed editor, quindi esperta del mestiere. Ella, nonostante la trama del suo romanzo, evita di cadere in uno dei maggiori errori dell’esordiente: l’infodump. Uno dei due protagonisti, Mukesh, è un vecchio signore keniota che vive a Londra da molti anni: ha perso la moglie da poco e ha smesso di frequentare il Mandir o di organizzare la cena del Diwali. Non sapete di cosa stiamo parlando? Probabilmente no. Perché il Kenya è un paese a maggioranza cristiana (83%) nel quale la religione induista rappresenta una minoranza. Il Mandir altro non è che il tempio induista e nel romanzo viene citato con naturalezza così come i riti che si svolgono al suo interno oppure i cibi che la famiglia di Mukesh prepara. Mai una volta, in tutta la narrazione, l’autrice cade nell’errore di spiegare il significato di parole, luoghi e cerimoniali che sicuramente non sono alla portata del lettore occidentale medio. In altre parole, non fa mai infodump. È l’altra protagonista, Aleisha, a spiegarlo a Zac in un dialogo, a oltre due terzi del romanzo.
Nella nostra pratica di editor assistiamo spesso al comportamento inverso: l’autore esordiente si lancia in lunghe spiegazioni anche di parole e fenomeni più largamente diffusi. La domanda da porsi è la seguente: che effetto fa l’infodump sul lettore? Se viene spiegato qualcosa che chi legge già conosce, si sentirà delegittimato; se viene spiegato qualcosa che non sa ma che potrebbe evincere dal contesto, oppure scoprire autonomamente, si sente indottrinato. Se invece trova una parola che non conosce non spiegata, il lettore è semplicemente incuriosito, cercherà il significato in autonomia e arricchirà la propria cultura. L’autore lo accompagna in un mondo nuovo, svolgendo il ruolo di guida discreta e mai invasiva.
“A volte i libri ci insegnano qualcosa. Ci mostrano il mondo, non lo nascondono” dice Aleisha. Proprio così, ci insegnano cose che non sappiamo. Oltre a intrattenerci, emozionarci e farci evadere, ci istruiscono.
Articolo di Greta Cerretti

“Leggo perché non so volare.”
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